Etichette ambientali: bussole per un futuro più verde

Le etichette ambientali sono strumenti sempre più importanti per orientarci verso scelte di consumo consapevoli e sostenibili. Ma come funzionano e quali informazioni ci forniscono? Scopriamolo insieme!

Dalla loro prima introduzione alla fine degli anni ’70, le etichette ambientali sono diventate delle vere e proprie bussole per orientarci verso scelte più sostenibili. Queste etichette, che assumono forme diverse, da quelle volontarie che raccontano le performance ecologiche di un prodotto a quelle che indicano come smaltire correttamente gli imballaggi, hanno un obiettivo comune: facilitare il dialogo tra aziende, consumatori e istituzioni sul tema della sostenibilità.

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Le etichette ambientali sono strumenti sempre più importanti per orientarci verso scelte di consumo consapevoli e sostenibili. Ma come funzionano e quali informazioni ci forniscono? Scopriamolo insieme!

Dalla loro prima introduzione alla fine degli anni ’70, le etichette ambientali sono diventate delle vere e proprie bussole per orientarci verso scelte più sostenibili. Queste etichette, che assumono forme diverse, da quelle volontarie che raccontano le performance ecologiche di un prodotto a quelle che indicano come smaltire correttamente gli imballaggi, hanno un obiettivo comune: facilitare il dialogo tra aziende, consumatori e istituzioni sul tema della sostenibilità.

Per i consumatori, le etichette ambientali sono strumenti preziosi per fare scelte consapevoli: permettono di valutare l'impatto ambientale di un prodotto e di preferire quelli più eco-compatibili. Le aziende, invece, le utilizzano come vetrina per comunicare i propri sforzi in materia di sostenibilità, guadagnando la fiducia di un pubblico sempre più attento a questi temi. Le istituzioni, infine, se ne servono per garantire trasparenza e rispetto delle normative ambientali, tutelando così l'ambiente e la salute dei cittadini.

Che cos’è e come nasce l’etichetta ambientale?

Un’etichetta ambientale è un marchio distintivo o un insieme di informazioni che accompagnano un prodotto, fornendo dettagli sui suoi attributi di sostenibilità, dalla sua fabbricazione fino allo smaltimento finale. Questo tipo di etichettatura di solito include simboli, loghi e informazioni testuali relativi a diversi elementi, come ad esempio il materiale utilizzato, la percentuale di materiale riciclato, l’impronta ecologica, la biodegradabilità, il consumo di risorse naturali, etc., con l’obiettivo di consentire ai consumatori di fare scelte più consapevoli e di identificare i prodotti che rispettano di più l’ambiente.

La prima etichetta ambientale della storia è da tutti unanimemente considerata l’etichetta “Der Blaue Engel” (l’Angelo Blu), introdotta nel 1978 dall’allora Repubblica Federale Tedesca. L’obiettivo che si voleva raggiungere con l’apposizione di questo marchio, applicato da quel momento ad oltre 10.000 prodotti in 80 categorie diverse, era segnalare ai consumatori i prodotti più rispettosi dell’ambiente, in modo che potessero preferirli consapevolmente ad altri più dannosi. Da allora, gli schemi di etichettatura ambientale si sono moltiplicati e differenziati, in particolare tra la fine degli anni Ottanta e il 2009, periodo durante il quale sono quintuplicati. Oggi se ne contano oltre 500 tipologie, la maggior parte delle quali nel settore agroalimentare e in quello dei prodotti cosmetici e igienici. Ma forme di etichettatura sono molto diffuse anche nel settore dell’edilizia e dell’arredamento, nel settore dell’energia, fino al turismo e alla finanza.

 

Le etichette ambientali sono obbligatorie?

Sì e no, nel senso che esistono sia etichette volontarie che obbligatorie.

Sono obbligatorie, in generale, le etichette che vengono applicate ad alcune categorie di prodotti che possono avere un particolare impatto sull’ambiente o sul consumo di energia.

Ad esempio, in Europa abbiamo già tutti fatto conoscenza da diverso tempo con il labelling energetico, quel sistema di lettere dell’alfabeto e colori che ci dice quanto siano efficienti elettrodomestici, prodotti elettronici, pneumatici. L’etichetta va obbligatoriamente esposta (fisicamente o sullo schermo, nel caso della vendita online) per tutti i prodotti in vendita, e deve essere inserita nel manuale di istruzioni. Alcuni dettagli cambiano a seconda del tipo di prodotto.

Ultime arrivate, ma non certo meno importanti, sono le etichette ambientali obbligatorie sugli imballaggi (divenute obbligatorie in Italia a partire dal 1° gennaio 2023). Una svolta importante per i consumatori e da tempo richiesta a gran voce da chi si occupa di sostenibilità.

Il packaging, quel mantello protettivo che avvolge prodotti di ogni tipo, tanto quelli destinati al grande consumo quanto quelli scambiati lungo le filiere di approvvigionamento – nasconde un lato oscuro. La sua impronta ecologica, infatti, è diventata colossale, soprattutto negli ultimi decenni. Quella che si è ormai trasformata in una vera e propria emergenza ambientale è alimentata da un lato dall’uso smodato della plastica in ogni forma e dimensione: dalle bottiglie alle vaschette, dai sacchetti ai film protettivi, la plastica è diventata la regina indiscussa del packaging.

Un altro fattore determinante è la crescita degli acquisti online. Ogni "ordina" si traduce in un flusso di pacchi che viaggiano per il mondo, avvolti in scatole di cartone, involucri di plastica, pluriball... un vero e proprio assalto all'ambiente che si amplifica con la velocità di un click. E il problema non è solo la quantità, ma anche la difficoltà di smaltimento e riciclo. Molti di questi imballaggi sono composti da un mix di materiali che li rendono "non riciclabili" con i sistemi tradizionali, condannandoli a una triste fine nelle discariche o, peggio ancora, nell'ambiente.

Ma qual è il prezzo di questa comodità? La quantità di rifiuti da packaging generata nell'Unione Europea è aumentata del 15% tra il 2013 e il 2020, raggiungendo la cifra spaventosa di quasi 80 milioni di tonnellate (Commissione Europea). Un vero e proprio fiume di spazzatura che, se da un lato protegge i prodotti, dall'altro soffoca il nostro pianeta. Solo il 64% di questi rifiuti viene riciclato, con differenze significative tra i materiali: carta, cartone e metallo raggiungono un tasso di recupero del 75%, mentre la plastica, il materiale più inquinante oltretutto, si ferma a un misero 40%. Un dato sconfortante che evidenzia l'urgenza di un cambio di rotta.

Per questo, la UE è intervenuta nel 2018 con la direttiva 852 (recepita in Italia con il decreto legislativo 116/2020), che ha fissato al 1 gennaio 2023 la data dopo la quale tutte le confezioni (ad eccezione di quelle messe in commercio precedentemente, che vanno a esaurimento scorte) devono riportare obbligatoriamente le informazioni di base su materiali di cui è composta la confezione e le sue modalità di smaltimento: ovvero se debba andare nella plastica, nell’organico, nell’indifferenziato o nei metalli. A queste possono aggiungersi altre informazioni a discrezione del produttore, come consigli pratici per rendere più efficiente la raccolta differenziata, per esempio che bisogna schiacciare la bottiglia di plastica su un lato anziché dal basso.

L’obbligo di etichettatura non ricade solo sui produttori di imballaggi, ma anche su chi li trasforma, e chi li importa, che non necessariamente coincide con il marchio che sarà riportato sul prodotto. Per capire meglio: un marchio di bevande gassate non produce normalmente le bottiglie in plastica, ma le acquista da aziende specializzate. Sono queste ultime a dover fornire tutte le informazioni da inserire in etichetta. L’etichetta che non deve necessariamente essere fisica: la legge infatti consente anche di realizzare etichette digitali a cui il consumatore può accedere attraverso un codice QR o una app, opzione molto usata su piccole confezioni come quelle di alcuni medicinali.

Per esempio, in Italia, l’etichetta di una bottiglia di plastica deve riportare (con i relativi codici merceologici) i diversi polimeri di cui sono fatti la bottiglia, il tappo e l’etichetta, anche se quasi sicuramente indicherà per tutti e tre la raccolta della plastica come modalità di recupero. L’etichetta di un sacchetto “ecologico” come quelli usati nei supermercati specificherà che si tratta di una plastica biodegradabile e compostabile, ricorderà di destinarlo alla raccolta dei rifiuti organici, e magari aggiungerà il logo di una delle varie certificazioni di biodegradabilità conferite da appositi enti. Ogni materiale ha anche un colore che lo contraddistingue: blu per la carta, marrone per l'organico, giallo per la plastica, turchese per i metalli, verde per il vetro e grigio per l'indifferenziato.

Altri Paesi nel mondo adottano etichette diverse, e chi esporta è tenuto a conoscerle per assicurarsi che i propri prodotti siano accettati sui mercati esteri. In Francia, per esempio, la stessa direttiva UE è applicata con l’uso del cosiddetto logo Triman, uno specifico simbolo che accompagna le informazioni su materiali e il loro recupero. Negli USA non esiste uno standard per l’etichettatura del packaging ai fini del recupero, anche se è ampiamente usato il Resin Identification Code, un logo accompagnato dai codici identificativi dei polimeri plastici, non obbligatorio a livello federale ma richiesto da alcuni stati come la California.

Etichette volontarie

Per quanto riguarda invece le etichette volontarie, le norme tecniche ISO ne distinguono tre tipologie (serie ISO 14020):

  1. Etichettatura ambientale di Tipo I (UNI EN ISO 14024)

    Le etichette di Tipo I sono certificazioni sviluppate su base scientifica e che quindi prevedono il rispetto di valori di soglia minimi, come per esempio il consumo di energia e materiali o la produzione di rifiuti. Questi criteri vengono definiti per ogni tipologia di prodotto tenendo in considerazione l’intero ciclo di vita dello stesso. I programmi di etichettatura ambientale di Tipo I hanno il compito di identificare e promuovere prodotti di avanguardia ambientale, per cui i criteri sono stabiliti su prestazioni superiori al livello medio (prodotti “di eccellenza”). Queste eco-etichette necessitano di un controllo da parte di un ente terzo certificato che possa verificare la corrispondenza del prodotto o servizio a metodi standardizzati e normati, tramite l’utilizzo di specifici strumenti.

    Il marchio europeo Ecolabel UE è un tipico esempio di queste etichette, rivolte al cittadino/consumatore, che contraddistingue prodotti e servizi che, pur garantendo elevati standard prestazionali, sono caratterizzati da un ridotto impatto ambientale durante l’intero ciclo di vita. Un altro marchio noto è FSC (Forest Stewardship Council) che fornisce la garanzia che il prodotto che si sta acquistando è realizzato in legno o carta da fonti responsabili.

  2. Asserzioni ambientali auto-dichiaratee/Etichettatura ambientale di Tipo II (UNI EN ISO 14021)

    Le etichette di Tipo II sono auto-dichiarazioni ambientali da parte di produttori, importatori o distributori di prodotti, senza l’intervento di un organismo indipendente di certificazione.

    Queste prevedono il rispetto, da parte del bene o servizio offerto dall’azienda, di specifici requisiti riguardanti i contenuti e le modalità di diffusione delle informazioni che l’azienda divulga al proprio target di riferimento.

    È fondamentale che questa comunicazione risulti non ingannevole, verificabile, specifica, chiara e non soggetta a errori di interpretazione. Non devono quindi essere utilizzate asserzioni vaghe come “sicuro per l’ambiente”, “amico dell’ambiente”, “amico della terra”, “non inquinante”, “verde”, “amico della natura” e “amico dell’ozono”.

    Le dizioni selezionate dalla norma UNI EN ISO 14021:2001 e comunemente utilizzate nelle etichette ISO Tipo II sono invece: “Compostabile”, “Degradabile”, “Progettato per il disassemblaggio”, “Prodotto con durata di vita estesa”, “Energia recuperata”, “Riciclabile”, “Contenuto riciclato”, “Consumo energetico ridotto”, “Utilizzo ridotto delle risorse”, “Consumo idrico ridotto”, “Riutilizzabile e ricaricabile”, “Riduzione dei rifiuti”. Per ognuno dei termini la norma contiene indicazioni per l’utilizzo corretto e la metodologia di valutazione.

    Questo passaggio è importantissimo perché, essendo queste delle autodichiarazioni, e quindi non obbligatorie, non è prevista la certificazione da parte di un organismo terzo. Di conseguenza non esistono dei valori minimi da rispettare, a differenza invece da quanto descritto nelle Etichette Ambientali Tipo I.

  3. Dichiarazioni ambientali di Tipo III (UNI ISO 14025)

Infine, ci sono quelle di Tipo III (anche dette Environmental Product Declaration, EPD), che sono certificazioni che si basano su diverse analisi relative al ciclo di vita di un prodotto (Life Cycle Assessment (LCA). Le regole e i requisiti per condurre queste analisi sono contenute all’interno del PCR (Product Category Rules), di cui esistono circa 100 tipologie e che potremmo descrivere come un documento contenente gli standard a cui attenersi per creare una eco-etichetta di qualità.

I valori di questo documento sono poi condivisi con gli stakeholder, che avranno la possibilità di confrontare tra loro i dati e le informazioni relativi a una data categoria merceologica.

Anche queste etichette si basano su un controllo indipendente, e sono usate soprattutto per le comunicazioni Business-to-Business all’interno di una filiera di approvvigionamento, per consentire alla fine il calcolo dell’impronta ecologica del prodotto finito.

Imparare a leggere e interpretare correttamente le etichette è un primo passo importante. Ma è necessario anche che le aziende siano sincere e trasparenti nelle informazioni che forniscono e che si impegnino davvero a ridurre l'impatto ambientale dei loro prodotti. Solo insieme, consumatori, aziende e istituzioni, possiamo costruire un futuro più verde e sostenibile.


 

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