Focus On: Zimbabwe
Il 31 luglio si sono aperte le urne in Zimbabwe. Il presidente Mugabe, al potere dal 1980, ha vinto, affermandosi nettamente sullo sfidante, il primo ministro Tsvangirai. Le accuse di brogli non sembrano in grado di bloccare l’ufficializzazione della nomina di Mugabe. Il livello di rischio paese resta elevato, condizionando la capacità di intervento assicurativo da parte di SACE.
Ancora Mugabe (per la settima volta)
Netta vittoria di Mugabe al primo turno. Secondo i dati ufficiali, Mugabe ha conquistato un nuovo mandato quinquennale alla presidenza, ottenendo il 61% delle preferenze; il suo principale sfidante, il primo ministro Morgan Tsvangirai, si è fermato al 34%. L’ampio divario si è replicato nello scrutinio parlamentare: il partito di Mugabe, Zimbabwe African National Union-Patriotic Front (ZANU-PF), ha conquistato oltre i 2/3 dei 210 seggi in parlamento, con 158 rappresentati contro i 49 del partito di Tsvangirai, Movement for Democratic Change (MDC) ed è ora in grado di legiferare e modificare unilateralmente la Costituzione.
Le accuse di brogli. Si è trattata della prima elezione indetta dopo l’approvazione della nuova Costituzione, adottata con ampio consenso bipartisan a marzo 2013. L’apparente clima di conciliazione nazionale è però svanito all’approssimarsi delle elezioni: l’opposizione ha denunciato manipolazioni e irregolarità nei registri elettorali, con scarsa rappresentatività delle fasce giovani e delle aree urbane (dove è maggiore il consenso per Tsvangirai) a vantaggio della popolazione più anziana e delle “roccaforti” rurali di Mugabe. Il fronte di Tsvangirai ha inoltre denunciato intimidazioni e attacchi nei confronti dei suoi sostenitori, come nelle precedenti elezioni del 2008, e annunciato un possibile ricorso alle corti giudiziarie.
Il precedente che fa paura. Nelle ultime elezioni, Tsvangirai aveva conquistato al primo turno più voti di Mugabe, ma aveva scelto di ritirarsi dal ballottaggio per interrompere le rappresaglie contro i suoi sostenitori (secondo alcune fonti, come Amnesty International, si parla di circa 200 morti). La vittoria di Mugabe aveva innescato un prolungato stallo politico e diplomatico, con drammatiche ripercussioni sulla situazione economica dello Zimbabwe. Grazie alla mediazione di Unione Africana e Southern African Development Community (SADC), era stato varato nel 2009 un governo di coalizione tra Mugabe e Tsvangirai che, con scarsa convinzione da entrambe le parti, ha traghettato il paese per quattro anni.
Il plauso africano versus lo scetticismo occidentale. Il timore di un ripetersi degli incidenti avvenuti nel 2008 può forse spiegare la diversa reazione ai risultati delle elezioni da parte degli osservatori esterni. Da un lato, il “fronte africano”, con Sudafrica, Unione Africana e SADC che, a seguito della crisi del 2008, avevano subito un impatto diretto in termini di deterioramento dei rapporti commerciali e di gestione dei flussi di rifugiati; essi hanno certificato le consultazioni come “libere e pacifiche” e invitato l’opposizione all’accettazione incondizionata dell’esito elettorale ufficiale. Dall’altro lato, gli “occidentali” capeggiati da Stati Uniti e Unione Europea che, non essendo stati autorizzati a inviare propri osservatori, hanno denunciato brogli e irregolarità, come evidenziato dagli osservatori indipendenti locali.
Il desiderio di una rinascita economica
Timidi segnali di ripresa economica. Lo Zimbabwe ha registrato una stabilizzazione dell’economia dopo il periodo di iperinflazione del 2009. Il PIL reale è cresciuto ad una media del 7% negli ultimi tre anni e l’inflazione è rimasta sotto il 10%, dopo l’abbandono del dollaro zimbabwiano e l’adozione di un sistema multi-valute (in sostanza, l’adozione del dollaro USA e del rand sudafricano come valute ufficiali). Le entrate del governo sono passate dal 16% del PIL nel 2009 al 36% del PIL nel 2012 (stime FMI), permettendo il ripristino dei servizi pubblici di base.
Le criticità economiche esistenti. Nonostante il recente miglioramento della performance economica, permangono criticità strutturali sia nella gestione dei conti pubblici che nella posizione con l’estero. Sul fronte interno, la dipendenza dall’industria dei diamanti e i frequenti aumenti della spesa corrente per i salari pubblici indeboliscono il budget statale, che agli inizi del 2013 aveva raggiunto un record negativo. La posizione con l’estero è caratterizzata da elevati deficit delle partite correnti, con livelli di riserve esigui e appena sufficienti a garantire una settimana di copertura della spesa per import.
Posizione debitoria insostenibile. Lo Zimbabwe è in debt distress: il debito estero del paese è pari a circa l’88% del PIL a fine 2012, di cui il 50% del PIL è costituito da arrears. Tra i principali creditori figurano il Gruppo Banca Mondiale e la Banca Africana di Sviluppo. La presenza di debiti scaduti e non pagati impedisce al paese l’accesso alla maggior parte delle fonti di finanziamento multilaterale internazionale, dirottandolo alla ricerca di investitori e partner commerciali bilaterali quali Russia e Cina.
Il re-engagement del FMI. Dopo oltre un decennio dall’ultimo accordo, il FMI ha approvato uno Staff Monitored Program (SMP), per il periodo aprile-dicembre 2013. Si tratta di un accordo informale, che non prevede assistenza finanziaria da parte del FMI, ma un monitoraggio delle politiche economiche adottate dalle autorità nazionali, in particolare nella gestione delle finanze pubbliche e nella regolamentazione del sistema finanziario. Una positiva conclusione del SMP può rappresentare un primo passo verso la normalizzazione dei rapporti con la comunità finanziaria internazionale, sebbene le attuali elezioni potrebbero costituire una battuta di arresto in questo processo.
Contesto operativo difficoltoso per gli investitori esteri. A pesare sul futuro dell’economia nazionale sono soprattutto i timori generati dalla linea politica adottata in passato da Mugabe nei confronti degli investitori esteri: la redistribuzione coatta delle terre dai proprietari bianchi ai zimbabwani, avviata con una demagogica riforma agraria alla fine degli anni '90 attraverso espropri senza indennizzo, ha minato la fiducia degli investitori in relazione alla tutela della proprietà privata. Le leggi sull'indigenizzazione dell'economia impongono la cessione obbligatoria a partner "autoctoni" di almeno il 51% delle quote di proprietà di imprese a capitale straniero (o zimbabwano, ma detenute da cittadini "non autoctoni").
Le sanzioni internazionali. L’Unione Europea ha imposto per la prima volta nel 2002 alcune sanzioni nei confronti di individui (tra cui Mugabe) e società locali, per presunte violazioni delle libertà civili e politiche e abusi dei diritti umani. A seguito del positivo svolgimento del referendum costituzionale del marzo scorso, l'Unione Europea, principale donatore, aveva deciso di sospendere l'applicazione delle misure restrittive nei confronti di 81 individui (su 91) e 8 società (su 10) precedentemente sanzionati. Mugabe continua ad essere soggetto sanzionato. La negativa risposta data dalla comunità internazionale allo svolgimento delle elezioni lascia prevedere un mantenimento del sistema sanzionatorio, con ripercussioni negative sull’intera economia del paese.
Non cambia la percezione del rischio paese. Il livello di rischio paese dello Zimbabwe rimane su livelli elevati (cat. OCSE pari a 7), soprattutto in termini di rischi politici. Il potere decisionale accentrato nelle mani di Mugabe accentua l’incertezza, in particolare aumentando i rischi di nazionalizzazione (anche diretta) e di mancata trasferibilità di valuta forte all’estero; il rischio di violenza politica è legato all’accettazione popolare dell’esito elettorale e alla capacità delle forze dell’ordine di gestire eventuali proteste post-elettorali.