Il clima, un nuovo (ma non troppo) fattore di rischio Paese: le conseguenze della siccità in Nord Africa
Poco più di un anno fa abbiamo parlato di come tra le prime conseguenze della guerra in Ucraina vi fosse il tema dell’approvigionamento e del costo di beni agricoli primari da parte dei Paesi del Nord Africa. A distanza di un anno la questione della food security non è ancora risolta. Problema che ha due elementi determinanti: uno di natura economica, l’inflazione, l’altro di origine naturale, la siccità. La crescita dei prezzi erode il potere di acquisto, peggiorando le condizioni di vita delle fasce di popolazione meno abbienti, specie nelle economie le cui valute si stanno deprezzando velocemente, rendendo ancora più costoso importare beni dall’estero ed esacerbando così l’effetto inflattivo. Quando a crescere sono i prezzi di beni primari, come il pane, questo può innescare pericolose tensioni sociali, come già avvenuto in passato. Gli episodi di violenza politica non sono, però, determinati esclusivamente dal contesto politico ed economico; variabili di tipo climatico diventano sempre più rilevanti.
Il Maghreb sta sperimentando il peggiore periodo di siccità degli ultimi decenni (Fig. 1 e 2), che determina un ritardo nella semina e una diminuzione della produzione di cerali. Nell’anno in corso in quest’area la produzione di grano potrebbe ridursi tra il 15% e il 24%, quella di orzo tra il 10% e il 30%; il sindacato tunisino dei lavoratori agricoli ha dichiarato che la produzione nazionale di grano potrebbe ridursi addirittura del 75%. Meno preoccupante la situazione in Libia, dove la siccità in Tripolitania è parzialmente controbilanciata da una stagione migliore in Cirenaica e in Egitto, dove è maggiore la presenza di aree agricole irrigabili.
Fig. 1 – Indice di precipitazioni standard (genn ’21 – genn ’23) Fig. 2 – Eventi estremi: siccità (dic ’22 – febb ’23)
Come in un circolo vizioso, una minore produzione di cereali ne rende necessario un aumento delle importazioni: deprezzamento valutario e inflazione generalizzata amplificano l’effetto negativo dell’import sulla bilancia dei pagamenti a detrimento delle riserve internazionali. Le autorità sono così costrette a razionare la valuta forte per destinarla al pagamento di beni ritenuti essenziali (come quelli agricoli o energetici) e si accumulano ritardi e mancati pagamenti per gli esportatori di tutti gli altri prodotti. Sta accadendo in Egitto, dove un’inflazione vicina al 40% e minori investimenti esteri rendono difficoltoso reperire dollari ed euro, e dove si privilegiano le importazioni di materie prime, indispensabili per la tenuta sociale del Paese. Più critica la situazione in Tunisia, in profonda crisi economica e dove scarseggiano i prodotti di base e si è reso necessario razionare l’acqua potabile durante le ore notturne. Le severe condizioni climatiche, oltre a determinare un aumento dei costi di approvigionamento, riducono anche le potenziali entrate da export di servizi (turismo), sottraendo un’altra importante fonte di valuta pregiata al Paese.
Mentre la Tunisia attende un piano di salvataggio per evitare il default, il Marocco – seppur macroeconomicamente più stabile – ha chiesto e appena ottenuto una linea di credito precauzionale dal Fondo Monetario Internazionale ($5 mld). L’Egitto, nonostante il sostegno del FMI e dei Paesi del Golfo, non ha però sufficiente spazio fiscale per fronteggiare adeguatamente questi shock a causa dell’elevato debito pubblico (90% del PIL) e del rapido aumento del costo dello stesso, dovuto all’aumento dei tassi di interesse, che drena ulteriori risorse. La recente decisione dell’OPEC+ di tagliare l’offerta di petrolio per 1,7 mln di barili creerà ulteriore pressione sulla bilancia dei pagamenti di questi Paesi, oltre che sul livello generale dei prezzi. L’Algeria, invece, riesce a controbilanciare questi effetti negativi grazie alla valuta forte aggiuntiva ($10 mld circa) che negli ultimi due anni è riuscita a riguadagnare grazie alla dinamica positiva dei prezzi degli idrocarburi; resta, tuttavia, un’economia legata all’andamento del prezzo del gas che, attualmente, è in riduzione.
È evidente, quindi, come lo stato dei conti pubblici e la presenza/assenza di leve fiscali possa fare la differenza nell’affrontare questi shock e possa determinare impatti concreti per gli operatori internazionali che fanno business in queste geografie.
Ciò che emerge è come nel valutare il profilo di rischio Paese non ci si possa più limitare solo all’analisi di elementi economici e politici ma si rende sempre più necessario considerare nell’analisi le variabili climatiche che, oramai, hanno effetti diretti ed immediati sulle economie e sui tessuti sociali dei Paesi maggiormente colpiti da eventi estremi.
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