Turchia: serve un ritorno alla sostenibilità
È appena trascorsa la terza “estate calda” consecutiva per la Turchia. Gli ultimi anni sono stati infatti caratterizzati da cicli di volatilità di mercato significativa che hanno portato, nel biennio 2018-19, a forti pressioni al ribasso sulla valuta locale e a impatti negativi sulla fiducia degli operatori esteri. Questo è un fattore determinante per un paese con una parte rilevante del debito denominato in valuta forte ($450 miliardi, 61% del Pil nel 2019), per lo più nel settore privato, con implicazioni evidenti sulla sua sostenibilità economico-finanziaria di lungo termine.
Dopo un 2019 chiuso con un +0,9% e un primo trimestre 2020 di crescita ancora positiva (+4,4% a livello tendenziale) grazie al massiccio stimolo fiscale e monetario, tra aprile e giugno scorsi si sono manifestati, nella loro intensità, i contraccolpi della pandemia, con un PIL in calo del 9,9%, un tasso mai così negativo dal 2009. Nel contempo sono emersi gli effetti delle politiche espansive della Banca Centrale, che in un anno ha ridotto il tasso di policy dal 24% al’8,25%, inferiore al tasso di inflazione (11,8% previsto per fine 2020) e portato in territorio negativo i rendimenti reali degli investimenti sul mercato locale. Ne è seguito un ulteriore calo generalizzato della fiducia degli investitori esteri e un conseguente nuovo deprezzamento della valuta locale. La lira è oggi scambiata a un tasso di 7,85 sul dollaro, il più basso di sempre, nonostante i tentativi a difesa del cambio che hanno però provocato una rapida erosione delle riserve in valuta forte, sulla cui effettiva disponibilità sono sorti alcuni dubbi (Fig. 1): i $ 43 miliardi attuali sono anche il risultato di operazioni di currency swap che la Banca Centrale ha posto in essere con le banche commerciali e con altre Banche Centrali estere e che andranno rinnovati a scadenza, pena l’ulteriore erosione delle riserve stesse.
Fonte: Banca Centrale turca
La possibilità di un cambio di passo nella politica monetaria sembra comunque realizzabile: dopo uno stimolo economico veicolato da un credito bancario “a basso costo”, la Banca Centrale ha dapprima alzato il borrowing rate, costringendo le banche a finanziarsi a tassi superiori a quello di policy, e più recentemente rialzato i tassi di riferimento di 200 punti base, portando il repo rate al 10,25%. Una mossa inaspettata, considerata l’opposizione ferma del presidente Erdoğan a manovre di questo tipo, e dagli effetti certamente positivi.
Tuttavia le nuove tensioni tra Armenia e Azerbaijan, unite alle frizioni politiche già esistenti tra Turchia, Ue e USA, hanno annullato gli effetti positivi della politica monetaria sul cambio. La lira ha continuato a deprezzarsi, avvicinando la soglia delle 8 lire per dollaro, aumentando le difficoltà di rifinanziamento del debito in valuta estera e i problemi della bilancia dei pagamenti. In questo contesto è aumentata la probabilità di restrizioni ai movimenti di capitale o di tariffe sulle importazioni da parte delle autorità turche, sebbene tale scenario non appaia al momento come prevalente.
Le prospettive rimangono incerte, specie con riferimento alle dinamiche geopolitiche in corso: il Consiglio Europeo dell’1 e 2 ottobre ha sostanzialmente “rimandato a dicembre” il Paese. Cipro ha accettato di accordare l’imposizione di sanzioni alla Bielorussia in cambio dell’impegno europeo a intervenire in egual modo contro la Turchia se non dovesse fermare le sue attività nel Mediterraneo orientale. Misure sanzionatorie restano quindi ancora possibili, non solo da parte europea (a dicembre), ma anche dagli Stati Uniti, sebbene tutto dipenderà da chi sarà il nuovo presidente USA. Per la Turchia sussistono pertanto le condizioni, sebbene in qualche misura ridotte, per evitare un punto di non ritorno nelle relazioni internazionali e cercare un punto di ritorno alla sostenibilità della sua politica macroeconomica.